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Aristoï
2020 - in corso
 

Dopo avere attraversato la materia, interrogato la forma, costituito un’antropologia plastica – della plastica; dopo avere costituito un catalogo lombrosiano (la serie Enosim) di fisionomie che indicano tutte la nostra criminale colpevolezza; dopo quel catalogo pietoso che scardina il concetto stesso di pietà; dopo quella veglia di spettri, che siamo noi, ciò che abbiamo prodotto, che siamo noi-prodotto. Dopo, è arrivata una mutazione.

Avviene che l’arte abbia capacità veggenti, veda con gli occhi del mondo intero, potentissimo sguardo ciclopico. Un artista scorge una nuova classicità. Un nuovo Kalòs kai Agathòs, un nuovo teatro, nuovi poteri, nuova solitudine. Dove non si parla più di bellezza. Non si parla più.

Apparentemente è una fine della Storia.  

Cos’ha visto Thierry Konarzewski, cosa è costretto a rivelarci, in un esercizio estenuante di trascrizione manuale, un esercizio da calcografia?

Che la plastica pandemica ha intaccato la statuaria classica. Sono stati generati nuovi eroi, in una continua mutazione, che può non avere fine. Saltano i linguaggi in cui l’artista si sentiva ingabbiato: la fotografia non è più cosa viva, ma strumento finale. È il disegno a divenire cosa viva. È il disegno il nuovo linguaggio, il più antico, cavernicolo e apotropaico.

Col disegno Konarzewski realizza il suo concetto di mutazione, attraverso lentissimi interventi - a matita - di chirurgia estetica su eroi antichi, ai quali cambia anche leggermente i nomi, invertendo sillabe, sciogliendo dittonghi, generando iati. Poi fotografa i suoi ritratti, mimesi della mimesi.

Se prima la sua fotografia era visione, ora è tassidermia. Non è più ricerca delle anime negli scarti, non fa più del fotografo un medium. Qui si tratta di una diminutio della fotografia, che si fa taccuino, appunto digitale. È l’intenzione dell’artista, poi, a ri-scattare quelle immagini e a farne oggetti fotografici.

 “I migliori”, come le anime di Enosim, siamo ancora noi. Fra cento, mille anni. Senza sguardo, identificabili dal naso-manico e dalla bocca-orifizio. Da storpiati, mitologici nomi. Se la cosa migliore sarebbe stata non nascere, dice Edipo a Colono, stiamo tornando là da dove si è giunti. Là da dove noi siamo giunti.

Come nelle precedenti serie, anche qui non c’entrano affatto facili rimandi a raccolte differenziate, a ricicli, a una vaga, slabbrata estetica dello scarto. Siamo in un oltre oltraggioso, in un paesaggio desolato. Siamo nell’ultima galleria intatta, sui ruderi di un museo archeologico che non c’è ancora, dopo avere precorso il futuro per appagare la nostra “ansia d’infinito”.

Raffaella Venturi - Critica d'arte e curatrice

 
Aprile 2020, Parigi

La serie ARISTOÏ è la mia domanda sulla Mutazione. 

Come rappresentare e testimoniare il mutamento fisiologico, fisico e mentale di una società, dei suoi individui a contatto con un corpo estraneo come la plastica. 

ARISTOÏ racconta di un passato futuro, un tempo in cui il rango sociale delle élites e del popolo era identificato non dai codici di abbigliamento ma dal loro fisico. Per le élites la Mutazione aveva scelto il naso e la bocca.

Ho quindi rivisitato i ritratti del periodo greco-romano, in particolare la statuaria onoraria, ben sapendo che la scultura antica aveva altre motivazioni oltre all’idealizzazione estetica, come la funzione religiosa, votiva, commemorativa e politica. Dai templi agli interni borghesi, passando per gli studi degli artisti, le scuole d’arte e i giardini pubblici, ha invaso il nostro inconscio collettivo. Rimane il punto di riferimento della bellezza classica e la testimonianza celebrativa della nostra società.

Ho scelto di disegnare i personaggi, poi fotografarli in studio, infine lavorare in post-produzione e ottenere un aspetto freddo tipo 3D lasciando tutti i difetti e i segni di un lavoro di studio. L'insieme costituisce un oggetto fotografico.

La serie ARISTOÏ suggerisce un’onirica mutazione di una società plasticizzata come matrice sia fisica che metafisica di individui nuovi all’interno di un’organizzazione sociale immutata.

È insieme una condanna ed una celebrazione.



 

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